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Il villaggio e i cani nel tempo dell’indulto

 

Alcuni giorni or sono, in un pomeriggio d’estate ferragostana, tersissimo come pochi ce ne regala il cielo sopra l'alta pianura Padana, mi aggiravo rilassato e tranquillo senza una meta per il centro abitato. Era un piacevole passeggiare, fino a quando non imboccai una via periferica, che ricordavo come particolarmente linda e tranquilla, con alcune poche villette non recentissime e di gusto non eccessivamente pacchiano, dotate di giardini molto accurati e con ombrose alberature.

Devo rimanere decisamente nel vago rispetto ad altre indicazioni che possano permettere di individuare la via, perché quanto scriverò di seguito potrebbe essere inteso come denigrazione di tutte le sue villette (tranne una) e delle famigliole piccolo-borghesi che le abitano (tranne una, sulla cui collocazione nella scala sociale peraltro occorrerebbero indagini più accurate).

Quando stavo per girare l’angolo, dovetti trasalire per l’urlo improvviso del cane a guardia nel giardino al civico n. 1; il vigliacco mi stava evidentemente aspettando, silente e acquattato nella siepe, per rendere psicologicamente più devastante il suo attacco a sorpresa. Sobbalzai immediatamente e mi scostai, accorgendomi con raccapriccio che solo per pochi centimetri la carogna non era riuscita ad agguantarmi una natica dopo aver infilato il suo muso nell’inferriata.

Non grande, dall’aspetto innocuo e forse aggraziato in altre situazioni, si dimostrò subito in grado di proseguire all’infinito in quel suo abbaiare lancinante, assolutamente intollerabile. Prese poi a correre veloce e rabbioso avanti e indietro lungo tutto il lato d’entrata della sua villetta, mostrandomi una ferocia esagerata, con emissioni monotone di volume e intensità altissimi, lievemente modulate solo a causa del suo allontanarsi/avvicinarsi, nonché del conseguente “effetto Doppler” (per chi non ricorda cosa sia, quando finisco  il resoconto, aggiungerò una nota a piè pagina copiata da qualche parte)*.

Ad aggravare la situazione acustica e la manifestazione di odio e ferocia del canide dimorante al civico n. 1, provvidero i due (credo) pastori tedeschi dirimpettai a guardia della bifamiliare al civico n. 2/4.

Costoro, dopo due spaventosi ululati lanciati all’unisono e da posizione appaiata, presero ad imitare, con pari dimostrazione di ferocia e analogo dispendio di decibel, il selvaggio va e vieni del primo animale, percorrendo anch’essi numerose volte, l’uno in un verso e l’uno nell’altro, il lato d’entrata del loro ombroso e ben curato habitat.

Quando nella loro folle corsa dovevano incontrarsi, rallentavano fin quasi a fermarsi, si abbaiavano addosso l’un l’altro e si minacciavano per qualche istante, salvo poi – una volta separati – concentrare le dimostrazioni di ostilità esclusivamente al mio indirizzo.

Il tutto, fortunatamente, si svolgeva al di là dei formidabili muretti di pietra su cui si ergevano monumentali inferriate riccamente (e inutilmente) elaborate.

Né l’una né l’altra villetta, come ebbi modo di notare fugacemente, davano segni di presenza umana, con porte, tapparelle (civico n. 1) e persiane (civico n. 2/4) accuratamente chiuse, segno evidente che i legittimi abitanti stavano lontano in ferie, o comunque per una non breve assenza, lasciando soli i loro cari cuccioli.

Tuttavia l’aspetto di costoro, e ancor di più la loro agilità e velocità, risultavano proprio l’esatto contrario delle melanconiche e dolci bestiole presentate nella pubblicità progresso contro l’abbandono degli animali.

Dal che, dedussi che qualcuno anche in quei giorni li stava accudendo diligentemente e con dovizia di calorie e proteine.

“E’ la solitudine che li incattivisce”, pensai e provai a chinarmi, a debita distanza di sicurezza dall’inferriata, nel tentativo di stabilire un qualche rapporto non conflittuale con la belva del civico n. 1.

Il risultato fu comicamente fallimentare: il cane raddoppiò la manifestazione di ferocia, l’intensità e il ritmo del suo abbaiare, e ciò mi convinse che l’unico modo per sfuggire ai decibel era di accelerare il passo e allontanarmi.

Giunto al limite del primo giardino, mentre i tre cani continuavano ora a ringhiare fermi addossati negli angoli delle rispettive recinzioni, mi accorsi che al civico 3 mi attendeva un cagnone enorme e lanoso, con una bocca gigantesca, che – quando gli giunsi vicino - prese ad ululare con altrettanta ferocia, senza correre avanti e indietro, ma marcandomi passo passo.

Poi dal retro dell’abitazione di fronte (civico n. 6) arrivò latrando a più non posso e correndo, velocissimo ed elegante,  un cane scuro scuro, di grandi dimensioni, agile e dalla corporatura affusolata. Questo si avventò contro l’inferriata ergendosi in verticale e mostrando rabbiosamente l’intenzione di scavalcarla con diversi tentativi. Notai che il suo petto, a differenza  del dorso, aveva un pelame molto chiaro, interrotto dalle nere protuberanze genitali, che mi parvero di dimensioni impressionanti.

La situazione per me, tutto solo nella via interamente deserta, stava diventando anche un pochino imbarazzante, perché ormai tutti i cani di tutte le villette erano in entrati in agitazione, sia quelli che avevo già incontrato e che continuavano le loro urla, sia quelli che non mi avevano ancora visto, ma – allertati e preparati - mi attendevano al varco accumulando preventivamente odio, rabbia e livore.

Non mi restava che andarmene dalla via il più in fretta possibile, per far tacere la canea generale, per mettere al riparo le orecchie dai decibel e per smaltire rapidamente i sentimenti, malevoli e perfino vendicativi, che mi stavano prepotentemente montando contro i cani e, ancor di più, contro i loro legittimi e assenti padroni.

Ci fu solo un’eccezione, che mi permetto di descrivere con una qualche ulteriore prolissità, prima di passare all’episodio conclusivo, il più antipatico.

Di là dell’inferriata, dozzinale e un poco arrugginita, al civico n. …, infatti, non c’era nessun ululato ostile o ringhio ad attendermi

La villetta, non ben tenuta, certamente non abitata in quel momento, ma con diversi segni di presenza umana (il cancello solo accostato, un lenzuolo steso, un giocattolo abbandonato da poco, un ciclomotore a portata di mano, diversi oggetti d’uso sparsi qua e là, insieme a cianfrusaglie abbandonate da tempi più remoti, ma in quantità tuttavia non eccessiva) non si ergeva, come le altre, nel bel mezzo di un giardino con piante esotiche ed erbetta ben curata: c’era invece un orto con pomodori, zucche e zucchine, cetrioli, melanzane, fagioli, lattughe, patate e vari altri ortaggi insieme ad alberi da frutta, come piccoli ciliegi (uno ancora con le tracce del recente innesto), un pero, un albicocco, forse un kako, addirittura l’abbozzo di un filare di vite con grappoli pendenti di uva ancora acerba.

E il cane? Si c’era anche qui l’immancabile cane. Era una bestia di razza indefinibile, dal pelo lungo e mal tenuto con effetto “rasta”, sdraiato sullo zerbino della soglia, che - quando mi vide - si limitò ad alzare il capo lanciando solo alcuni discreti ululati dal significato del tutto opposto rispetto a quello dei suoi simili.

Con le sue poche e misurate emissioni comunicava infatti con fermezza  che si dissociava esplicitamente e fermamente dalla canea vergognosa dei colleghi e li invitava a tacere dal momento che stavano disturbando sia lui (soprattutto) sia chi stava passeggiando (cioè io soltanto), nonché l’insieme del quartiere. Mi parve perfino di cogliere, da uno sguardo particolare che mi rivolse e dalla inflessione dell’ululato che lo accompagnava, una sconsolata ammissione unita al proposito di provare comunque a rimettere le cose a posto: “Guarda con che scemi mi tocca convivere! Ma sta sicuro che se qualcuno mi capita a tiro, la passa male”.

Per il resto non si mosse e ci scambiammo sguardi di complicità e, specialmente da parte mia, di riconoscenza e fraterna ammirazione.

Il cane barbone mi commosse per la sua nobile fierezza controcorrente e non rassegnata. I suoi pochi ululati avevano avuto sugli altri animali un benefico effetto, ma purtroppo di breve durata: solo per qualche secondo nei dintorni scese repentinamente il silenzio, ma poi tutti gli altri cani - ma proprio tutti – ripresero con le loro urla.

Non mi rimase che accelerare il passo di nuovo.

Il canide che doveva risultare come il peggiore, mi attendeva al numero civico successivo, uno degli ultimi della via e attiguo a quello del nobile “rasta”. Il bestione, di razza indefinibile, ma decisamente grosso e molto scemo, si stava già agitando in modo forsennato, quando gli giunsi a tiro, davanti al suo ampio giardino rigorosamente uniformato agli standard della via, con alberi ben curati originari da tutti i continenti (tranne Europa ed Antartide), erbetta leziosa come quella degli altri, ma con effetto di insieme molto più pacchiano.

Anche questo cane, dopo essersi avventato nella mia direzione, prese a correre avanti e indietro all’impazzata, ferocissimo, secondo gli isterici rituali che avevo già visto e subito parecchie volte nel giro di pochi minuti.

Questa volta però, dietro al cane, c’era anche il padrone, una persona che devo annoverare fra quelle di mia conoscenza dal momento che in qualche occasione abbiamo conversato insieme sia pure brevissimamente e a proposito di argomenti rigorosamente insignificanti: stava lì in canottiera, statuario, con spalle e bicipiti torniti e abbronzati, un po’ in alto seduto nella terrazza d’entrata guardando impassibile me e, con compiacimento, il suo assatanato animale.

Lo salutai con un cenno vagamente corrisposto; quindi, senza praticamente profferir verbo (che sarebbe stato sovrastato dalla canea generale), gli lanciai un discreto sguardo a significare che mi aspettavo da lui quel gesto di doverosa urbanità che in tali circostanze risultava pressoché d’obbligo: facesse cioè tacere il suo isterico cagnaccio o quantomeno ci provasse.

Quel gesto – con mia sorpresa e disappunto - non venne, nemmeno ci fu un accenno. Mi sentii invece raccontare ad alta voce e in dialetto, con fare insieme maligno ed untuoso, che “i cani fanno così” e poi altre frasi composte di vocaboli oscillanti fra il dialetto e la lingua italiana.

Erano giri di parole, attraverso i quali l’individuo, benestante, mio conterraneo e, quanto me, ampiamente dialettofono, si sforzava di comunicarmi in modo indiretto e goffo, quasi abbaiando anch’egli, due concetti che alla fine - malgrado l’incredibile azione di disturbo esercitata dal cagnaccio - mi risultarono chiarissimi: da una parte, la soddisfazione per le performance di aggressività del proprio e degli altrui animali e, dall’altra, l’apprensione perché in Italia ci sono troppi delinquenti ed extracomunitari (la parola “Mastella” venne pronunciata una volta, la parola “nigher” – nero/i – due volte, la parola “maruchì” - marocchino/i – ben tre volte e con astio progressivo).

 

La presente narrazione – suppongo – ha già sfidato di troppo l’attenzione dell’incauto lettore. Dilungarmi su come chi scrive abbia reagito, che cosa abbia fatto successivamente o detto (non più di due icastiche figure retoriche sillabate a voce molto alta in dialetto strettissimo), è cosa priva di interesse narrativo e documentario.

Certo: ho provato e provo ancora sconforto. Eppure…

Eppure, proprio là dove meno te lo aspetti, c’è sempre una casa non ben tenuta, ma vissuta con affetto, anche se il suo aspetto tradisce una evidente (forse perdurante) difficoltà economica o d’altro tipo nella storia della famiglia che la abita.

E’ la villetta in mezzo non ad un giardino finto e gelido anche in piena estate,  ma circondata da un fazzoletto di terra con alberi da frutta, ortaggi, qualche erbaccia e perfino un patetico e disarmante filare di vite. C’è un po’ di disordine e sciatteria (ma non sgradevoli) e di incuria (contenuta), c’è il cancello solo accostato e c’è anche l’immancabile cane: un animale all’apparenza niente affatto rassicurante e nemmeno socievole, ma dal portamento fiero e nobile, fermo e combattivo nella sua coraggiosa testimonianza a favore della tolleranza e della civile convivenza.

Nelle avversità e nel mare dell’incomprensione che ci circonda, c’è sempre una robusta ancora di salvezza che ti dona conforto e fiducia.

San Paolo d’Argon, 29-30.08.06

m.m.

* “Effetto Doppler”: La frequenza di un fenomeno ondulatorio (luce, suono ecc.) varia in funzione della velocità quando la sorgente e l’osservatore sono in moto l’una rispetto all’altro (Enciclopedia Universale Garzanti)

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